 
                
                     
                    
                        Corte d'Appello di Napoili
 
                
                    
                        C’è una nuova generazione al comando del clan D’Alessandro di Castellammare di Stabia. La dinastia criminale di Scanzano, che da decenni domina la scena camorristica stabiese, si rinnova nel segno del sangue e della continuità. A confermarlo è la sentenza della Corte d’Appello - i cui dettagli sono stati riportati oggi sul quotidiano Metroipolis - che ha ratificato i concordati di pena proposti dal collegio difensivo – guidato dagli avvocati Gennaro Somma, Alfonso Piscino e Catello Ascione – per diversi esponenti di spicco della cosca.
La condanna di Michele D’Alessandro: il ritorno del “padrino junior”
Otto anni e due mesi di reclusione per Michele D’Alessandro, 33 anni, figlio del boss Luigi D’Alessandro (attualmente detenuto al 41 bis) e nipote dello storico padrino Michele, fondatore del clan. La sentenza, che riduce di quasi un anno la pena inflitta in primo grado, conferma comunque le accuse di estorsione e traffico di stupefacenti, aggravate dal metodo mafioso.
Nel processo di primo grado, la Dda di Napoli aveva chiesto per lui una pena di 20 anni, ipotizzando un ruolo da capo-promotore. I giudici, tuttavia, non hanno riconosciuto questa posizione apicale, pur confermando la piena responsabilità del rampollo per le attività criminali condotte tra il 2010 e il 2015, nell’ambito dell’inchiesta “Cerbero”.
Secondo le indagini, coordinate dalla Direzione Distrettuale Antimafia e condotte dai carabinieri della compagnia di Castellammare, Michele D’Alessandro aveva cominciato a imporre estorsioni a commercianti e imprenditori della zona, cercando di ricostruire una rete di potere economico in grado di garantire la sopravvivenza della cosca dopo gli arresti dei vecchi capi.
Oggi il giovane boss è agli arresti domiciliari fuori regione, ma di recente ha incassato un’ulteriore condanna in primo grado per estorsione relativa a fatti del 2021 — un segnale chiaro della persistenza del controllo criminale dei D’Alessandro sul territorio stabiese.
Le altre condanne: Rossetti e i luogotenenti di Scanzano
Il verdetto della Corte d’Appello non riguarda solo i D’Alessandro. È stato condannato a 20 anni di carcere anche Antonio Rossetti, considerato uno dei ras più spietati e fedeli del clan. Attualmente recluso al regime di 41 bis, Rossetti ha visto ridursi di cinque anni la condanna rispetto al primo grado. Per gli inquirenti, era lui l’anello di congiunzione tra le due ali della famiglia D’Alessandro.
Condannato anche Antonio Gambardella, 35 anni, a 7 anni di reclusione: per gli investigatori era al servizio diretto di Rossetti, impegnato nella riscossione delle estorsioni e nella gestione del traffico di droga.
A 2 anni e 6 mesi la pena inflitta al collaboratore di giustizia Valentino Marrazzo, le cui rivelazioni – insieme a quelle di Pasquale Rapicano – hanno permesso alla Dda di ricostruire la mappa del potere della cosca di Scanzano, dai rapporti con i fornitori di droga fino ai nomi delle vittime del racket.
L’inchiesta “Cerbero” e i legami con i Di Martino di Gragnano
L’inchiesta “Cerbero” ha svelato l’evoluzione del clan D’Alessandro tra il 2010 e il 2015: un’organizzazione capace di diversificare i propri affari illeciti, dall’estorsione al traffico di stupefacenti, fino al controllo degli appalti pubblici. Da oltre un decennio, la famiglia di Scanzano è alleata con i Di Martino di Gragnano, consolidando un asse criminale che domina la zona dei Monti Lattari e l’intera area stabiese.
Non a caso, tra gli imputati che hanno scelto il rito ordinario compaiono anche nomi di primo piano come Antonio Di Martino, boss gragnanese, e il narcos Rossano Apicella, coinvolti nel traffico di cocaina tra la Campania e la Spagna.
Il maxi-processo e la “nuova cupola” stabiese
Il processo in corso, che conta 29 imputati, coinvolge figure storiche e nuove leve della cosca. Tra i nomi più noti figurano Annunziata Napodano, moglie di Luigi D’Alessandro; Teresa Martone, vedova del defunto padrino Michele; e Rosaria Iovine, moglie di Luigi.
Secondo la Dda, il clan si sarebbe riorganizzato durante la detenzione dei vertici storici, puntando su una nuova generazione pronta a gestire affari e rapporti sul territorio. Una “terza generazione” criminale che, seppur meno appariscente, continua a esercitare il controllo economico e sociale su Castellammare di Stabia.
Un’eredità di potere che resiste
A distanza di oltre trent’anni dagli anni d’oro del clan D’Alessandro, quando Scanzano era sinonimo di terrore e dominio, la camorra stabiese mostra di avere ancora un futuro, fatto di figli e nipoti pronti a raccogliere l’eredità criminale.
La sentenza della Corte d’Appello conferma non solo la solidità delle indagini della Dda, ma anche la capacità del clan di rigenerarsi, di mantenere i propri legami e di adattarsi ai tempi.
Castellammare, ancora una volta, si trova davanti al fantasma di un potere che sembrava sepolto ma che continua a riaffiorare, generazione dopo generazione.
 
                Abate: «Ci mangiamo un po' le mani per le nove occasioni create, in certe circostanze avremmo dovuto gestire meglio il pallone. Comunque, portiamo a casa un punto prezioso.» De Pieri: «Sono felice per il gol, abbiamo dimostrato di essere un gruppo forte.» Andreoletti: «Un punto che vale come una vittoria.»