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L’eruzione del Vesuvio del 79 d.C.

Sommerse da ceneri e lapilli, Pompei, Ercolano, Stabia e tutti i centri abitati della Valle del Sarno

tempo di lettura: 5 min
di Antonio Ziino
23/08/2020 13:39:23

La lunga estate dell’anno 79 d.C., si concluse tragicamente per città, centri abitati  e agglomerati urbani: Il Vesuvio, che ha già  aveva dato segni di attività tellurica dieci anni prima, come per i secoli precedenti,  si risveglia e semina distruzione e morte di diverse migliaia di abitanti (forse 2Omila), ma non andiamo a cercare date precise, orari, usi, costumi di abitanti stroncati nel mezzo di attività rigogliose. I manoscritti in uso di continui rimaneggiamenti, non sono sempre attendibili.

Il Vesuvio, come hanno scritto storici e archeologi di grande attendibilità, Come ha anche ricordato in un suo studio Chiara Tangredi,  si attiva dopo evidenti segni prodromici. Negli anni precedenti l’area vesuviana è colpita da scosse telluriche e sciami sismici. Nel 62/63 d.C. in Campania è un violento terremoto con epicentro Pompei. Probabilmente il sisma è un primo indizio del successivo risveglio del Vesuvio. Nei giorni precedenti l’eruzione si verificano reiterati sciami sismici. A Pompei si prosciugano le sorgenti d’acqua.

Nonostante i sintomi prodromici, i più non sembrano sospettare l’avvicinarsi di un’eruzione. L’eruzione del Vesuvio ha modificato la morfologia stessa del vulcano e dei territori circostanti. Distrutte e sepolte sotto uno strato di cenere e lapilli le città vesuviane: Pompei, Ercolano, Stabia, Oplontis. Innumerevoli le vittime. Il naturalista Plinio il Vecchio (23-79 d.C.), comandante della flotta di Miseno, muore sulle spiagge del lido stabiese, mentre cerca di soccorrere le città devastate.

L’attività eruttiva è stata ricostruita mediante le testimonianze da un lato tramandate dalle fonti antiche e dall’altro riscoperte nel corso degli scavi archeologici. Tra le fonti antiche la principale è il diciottenne Plinio il Giovane (circa 61-114 d.C.). che al momento dell’eruzione Plinio si trova a capo Miseno, assieme allo zio materno Plinio il Vecchio. È testimone della sciagura. E questo dovrebbe bastare per dissipare incertezze e dubbi.

Ne ha fornito una descrizione in due lettere (Epist. VI, 16 e 20) indirizzate all’amico e storico Publio Cornelio Tacito, scritte intorno al 106/107 d.C., all’incirca 27/28 anni dopo l’eruzione. Dalle epistole pliniane si desumono informazioni importanti alla ricostruzione scientifica e storica del fenomeno eruttivo. Tant’è che l’eruzione vesuviana è stata definita dagli studiosi moderni di tipo pliniano.

Le indagini archeologiche susseguitesi a partire dal Settecento (e tutt’ora in corso) hanno progressivamente restituito dati significativi.

Questa data è stata accettata e riportata da studiosi, cultori della storia dell’arte e archeologi, tanto per citare alcuni nomi si ricordano  Amedeo Maiuri, Alfonso De Franciscis, Matteo Della Corte, Olga Elia, Pietro Soprano, Pietro Sogliano e, ancora, Cosenza, Di Capua,  Osanna (vedi Anche A. Ziino, L’Osservatore Romano, Città del  Vaticano, Anno CII.N. 240 e segg.).

Ritornando  alla catastrofica eruzione, ricordiamo che a farne le spese, è stata anche Stabia che s’è vista distrutte ville, masserie, acquedotti, piscine.

Il complesso archeologico stabiano, diviso in due grandi settori distanti circa un chilometro l'uno dall'altro, fu sepolto da ceneri e lapilli dall'eruzione del Vesuvio del 79.d.C., condividendo, così, la stessa sorte di Pompei, Ercolano e di altri centri dell'area vesuviana. Nel Settecento, i Borbone, nel corso della campagna di scavi promossa da Carlo III,  riportarono alla luce almeno 19 ville e altre case tra Castellammare di Stabia e Gragnano.

Il valore  storico-artistico 
Si tratta di alcune belle ville, certamente meta di  villeggiatura di patrizi romani, appartenute forse al demanio imperiale  e, probabilmente, commissionate dalla ricca aristocrazia romana.
Degli edifici scavati, sono state lasciate preziose, dettagliate, planimetrie di tutta la zona utilizzate ancora oggi. Le ville presentano singolarità non riscontrabili in altre aree archeologiche (infatti, l'architettura stabiana, di concezione più funzionale che monumentale, è ricca di una veste decorativa considerata la migliore produzione di maestri che si sono elevati, dalle esperienze delle botteghe artigiane, all'espressione poetica di un fenomeno artistico degno di particolare rilievo).

La storia inizia nel 1700
Di quel periodo, dalle  notizie che sono state "tramandate" da Michele Ruggiero, primo direttore degli Scavi, un tecnico serio e coscienzioso, si apprende che: "Gli scavi di Gragnano (Stabia) ebbero cominciamento il dì 7 giugno 1749 con sei uomini ed un capo maestro nelle vicinanze del Ponte di S. Marco, dove in quel giorno medesimo s'incontrarono due vasi grandi e due piccoli di bronzo...", ecc., (Ruggiero). A Stabia, "si scavò per ventidue anni: quattordici dal 1749 al '62 ed otto dal 75 all'82, ma come portava la condizione del tempo e la qualità degli uomini che ne ebbero le prime cure - aggiunge il Ruggiero - piuttosto ad uso dei cercatori di antichità che di studiosi d'arte e di archeologia".

Mancato sviluppo
Dopo un silenzio durato oltre duecento anni, mentre Pompei ed Ercolano assurgevano ai fasti dell'archeologia mondiale, Stabiæ rimaneva, e in parte, rimane, anche dopo la ripresa degli scavi del 1950,  la sorella cenerentola per una serie di motivi che non ne hanno consentito l'adeguato  sviluppo.
Perché si è verificato ciò? Qualche spiegazione, comunque, è semplice darla: Invece di programmare, nel tempo, un graduale, progressivo sviluppo, l'orientamento è stato quello di progettare campagne di scavi e creazione di un vasto parco archeologico che interessa tutta Varano e comprende ora parte del Comune di Gragnano, dopo la realizzazione della nuova strada. E così sono trascorsi inutilmente decenni: di tanto in tanto qualche iniziativa del Comune, qualche volta della soprintendenza.

Si va, come spesso  accade, ai grandi progetti e trasformazioni.

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