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Santa Maria la Carità - 'Reale', il murale che cuce l'oro sulle ferite del Rione Petraro

Un murales, due bambini e l’oro delle ferite: il grido silenzioso del Rione Petraro attraverso la mano dell'artista Taddeo Del Gaudio.

tempo di lettura: 4 min
07/08/2025 15:04:49

Due bambini. Una fionda, uno sguardo complice, un gesto silenzioso. Nessuna violenza, nessuna fuga: solo protezione, complicità, sacralità. È da questa immagine che parte il viaggio visivo e simbolico del murales realizzato da Taddeo Del Gaudio – in arte Reale – nel cuore del Rione Petraro, quartiere popolare al confine tra Castellammare e Santa Maria la Carità.

Il murale non è solo pittura su cemento. È carne viva. È poesia urbana. È un altare laico eretto all’infanzia e alle vite che crescono tra muri scrostati e sogni a voce alta. Uno dei due bambini raffigurati tende la fionda come fosse un’estensione della propria dignità; l’altro invita al silenzio, ma non alla resa. È una scena carica di simboli, potente quanto disarmante.

Sul volto dei due piccoli protagonisti, una ferita dorata. Non sangue, non lividi. Oro. L’eco visiva del Kintsugi, l’antica arte giapponese che insegna a non nascondere le crepe, ma a valorizzarle. Le cicatrici diventano gioielli, perché nel dolore c’è luce. “Chi cresce tra i vicoli impara che il dolore può brillare,” dice Reale. E in quella frase, si sente l’urlo sussurrato di un’intera generazione.

Sopra le loro teste, la scritta che sfonda ogni retorica:
“Figli di Dio, fuori dagli schemi, dentro il reale.”
È una dichiarazione d’intenti. È il codice genetico del murales, e forse dell’artista stesso.

Un’opera che parla con la voce del quartiere

Taddeo, 27 anni, studente dell’Accademia di Belle Arti di Napoli, non si definisce semplicemente un artista. Si definisce un testimone. Di un quartiere, di una comunità, di una realtà che non vuole più restare muta. “Io e il mio rione ci conosciamo da sempre,” racconta. “Ogni anziano che mi portava il caffè mentre dipingevo rappresentava un’eredità. Questa opera non è solo mia: è nostra.”

Parte attiva nella realizzazione del murales è stato anche Don Maurizio Molino, parroco del rione Petraro, che ha contribuito in silenzio, senza cercare riflettori, proprio come il bambino raffigurato nell’opera. Una presenza discreta ma fondamentale, radicata nel cuore della comunità e punto di riferimento per i giovani.

E il quartiere ha risposto. Si ferma, osserva, riflette. Qualcuno consiglia, altri restano in silenzio, quasi commossi o orgogliosi. Ma tutti, in un modo o nell’altro, si sentono parte di quel murales. “Forse non trovano risposte – riflette Reale – ma si fanno domande. E chi si interroga è vivo.”

Quando l’arte non consola, ma ricorda

Reale non dipinge per decorare. Dipinge per risvegliare. Per incidere la memoria sulle pareti, affinché non si dimentichi da dove si viene. “Parlo reale, perché l’ingiustizia non mi appartiene. Io non voglio cambiare il mondo, ma voglio costringerlo a guardarsi.”

Il murale non è solo un punto di arrivo, ma una tappa. Reale è già oltre, in continua evoluzione. “Mi sento diverso rispetto alla mia ultima opera. È un buon segno. Non sono fermo, sto crescendo.”

I progetti futuri sono lì, sotto la superficie. Non detti, non svelati. “Non è scaramanzia. È concretezza. Parlo di ciò che ho fatto, non di ciò che potrei solo promettere.”

Dentro l’oro, la verità

C’è un dettaglio nascosto in ogni opera di Reale. “Lascio segni invisibili – confessa – messaggi per chi sa leggere. A ispirarmi non sono gli artisti, ma le persone comuni. Quelle che portano dentro mondi interi e non lo sanno nemmeno.”

E allora Reale diventa voce di chi voce non ha. Mani che dipingono la dignità dove spesso c’è solo marginalità. Il suo murale al Petraro non cerca di offrire risposte. Preferisce porre domande scomode. Perché l’arte vera non consola. L’arte vera inquieta. Ti guarda negli occhi e ti chiede: “E tu, dove sei cresciuto? Cosa ne hai fatto delle tue ferite?”

Forse è questa la bellezza più profonda dell’opera: non dice chi siamo, ma ci ricorda che esistiamo. Anche con le nostre crepe. Anzi, soprattutto con quelle.

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