I pentiti non dovevano parlare, non dovevano incastrare gli affiliati del clan D'Alessandro. Era questo il diktat del boss Vincenzo D'Alessandro di Castellammare di Stabia che, servendosi dell'aiuto degli alleati delle cosche calabresi e napoletane, provava a seminare il terrore fra le famiglie dei collaboratori di giustizia. A rivelarlo è Luciano Fontana, un pentito stabiese le cui dichiarazioni sono al centro di numerosi processi contro gli scanzanesi fra cui quello Tsunami. Il boss Enzuccio non voleva che ex affiliati potessero mandare in crisi il suo grande impero criminale. Per evitare di essere intercettato dalle forze dell'ordine, faceva seguire i familiari dei pentiti da killer provenienti dalla provincia di Reggio Calabria e anche dai quartieri Ponticelli e San Giovanni a Teduccio di Napoli dove i D
'Alessandro hanno stretto importanti alleanze. Questi poi soggiornavano a Scanzano e al termine del 'lavoro' ritornavano a casa.
I rapporti con i calabresi sono stati stretti proprio dallo stesso Vincenzo D'Alessandro che era stato relegato al Sud per diverso tempo per delle inchieste giudiziarie. E' proprio in quei momenti che ha stretto le principali alleanze con le cosche locali che poi sono corse in aiuto di Scanzano più di una volta e viceversa. L'obiettivo di 'Enzuccio' era quello di bloccare le testimonianze dei collaboratori di giustizia che stavano raccontando ai magistrati napoletani tutti i retroscena del clan stabiese. E forse in quest'ottica potrebbe essere visto anche l'omicidio di Antonio Fontana del luglio del 2017 del quale non si conoscono ancora mandanti ed esecutori materiali.